In essere

Nessuno me lo spiegò, ma lo feci.
Alla fine portai a termine il mio piano seguendolo alla lettera e pensare che l’11 ottobre del 1978 ero ancora analfabeta. Quello che dovevo fare era crescere e aumentare la complessità del mio corpo. Tutto molto semplice. Infatti ci riuscii. Feci solo il mio dovere, ma nessuno, quel giorno, mi disse bravo. Cosa ne sapevo io che dovevo spartirmi il banchetto con lui. Lo ripeto: nessuno ebbe il buon senso di avvisarmi. Comunque gli regalai il palcoscenico e lo feci uscire per primo. Era perfetto. Mia madre lo diceva sempre, eppure lei non lo vide mai. Più perfetto di me. Più perfetto del mio piano omicida.
Forse l’ho ucciso, ma lui non è mai nato. L’11 ottobre del 1978 mi rubarono il nome. Io mi chiamo Gabriele, e non sono mai morto.

(Incipit di un racconto che sto terminando)

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Siamo rimasti solo voce

Siamo rimasti solo voce. Come la ninfa Eco, che a furia di consumarsi, per passione, finì col rimanere voce… eco di voce, eco della sua voce. Non abbiamo più peso, né corpo né vita, siamo soltanto voce. La voce che si spande nei canali della quotidianità, la voce rinchiusa, asserragliata a spurgare, incarcerata. La voce dai motel, la voce rimasta impigliata nella rete dei telefoni, delle strade, dei binari. Siamo rimasti Voce, senza più corpo, sul bordo della nostra gioventù, sull’orlo di come sarebbe dovuta andare. La voce delle serenate, che ci echeggiano nelle orecchie, e non ci lasciano in pace. Puniti dalla troppa passione, ci si è portati al punto di rimanere fermi davanti ai bivi. Allora ci è voluto il ritiro, l’impresa e l’epopea.
La voce è diventata la nostra divinità, il nostro nume.

Così inizia un bellissimo libro di Vinicio Capossela, Non si muore tutte le mattine (Universale Economica Feltrinelli, 2006).

Voglio far combaciare l’incipit di questo blog con quello di Vinicio per lasciare spazio alla voce, a quella compagna che ci tutela e conserva. Che ci riproduce.

Siamo rimasti voce e dobbiamo superare l’eco per tornare carne e pensiero.

Ilaria